Data: 01/02/2013
 

L'eredità tossica della Zanoobia

Una vicenda incredibile che ebbe inizio nel febbraio del 1987, quando sette containers zeppi di scorie chimiche vennero imbarcati a bordo del cargo maltese Lynx nel porto di Marina di Carrara

L'eredità tossica della Zanoobia

Nella seconda metà degli anni '80, prima di diventare un argomento di scottante interesse politico, il destino dei veleni prodotti dalle industrie era visto come un problema riservato agli specialisti del settore. Un argomento poco interessante e marginale nonostante, stando ai dati ufficiali riferiti al biennio 1986 -1988, quello dei rifiuti fosse già un business di enormi dimensioni: 7000 le tonnellate di materiali tossico-nocivi inviati all'estero dall'Italia. Una cifra comunque distante dalla ben più grave stima fatta da Greenpeace, che in quello stesso periodo calcolò in ben 500.000 le tonnellate di sostanze pericolose inviate oltre frontiera, per un giro d'affari intorno ai 1000 miliardi di lire.

Erano quelli gli anni precedenti all'entrata in vigore della Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti (1989) ed esportare sostanze pericolose, anche in Paesi non Ocse, era una pratica legale per la quale non erano previste particolari procedure. Di certo moralmente discutibile, ma comunque funzionale alla necessità di allontanare il più possibile le scorie da chi le produceva. In pochi si chiedevano dove finivano gli scarti indesiderati del benessere occidentale. Solo nel giugno 1988 l'annosa questione dello smaltimento dei rifiuti tossico-nocivi attirò finalmente l'attenzione dell'opinione pubblica per via dell'arrivo a Genova della nave Zanoobia con i suoi 10.500 fusti di sostanze chimiche.

Una vicenda incredibile che ebbe inizio nel febbraio del 1987, quando sette grandi containers pieni di scorie chimiche vennero imbarcati a bordo di un cargo maltese chiamato Lynx nel porto di Marina di Carrara. Uno scalo strategico nel vorticoso viavai di denaro e veleni: nel solo 1987 partirono dai moli toscani ben diecimila tonnellate di rifiuti tossici [1].

Tre navi, mille veleni - L'11 febbraio 1987, la Lynx riuscì a salpare nonostante le proteste degli ambientalisti di Massa Carrara che per primi denunciarono la pericolosità del suo carico: pesticidi, fitofarmaci, vernici di resine sintetiche, resine polimerizzate, resine tossiche in soluzione, residui di zone industriali, fanghi di impianti di verniciatura, scarti di prodotti farmaceutici, solventi, acque inquinate provenienti dall'industria chimica e altri miscugli non meglio precisati. Tutto il materiale era stato raccolto per 1,1 miliardi di lire [2] dalla divisione ecologia della Jelly Wax di Milano [3], azienda specializzata nello smaltimento di rifiuti industriali. Enichem, Acna di Cengio, Farmolant, Basf, ICI, Dow Corning e Delfzijl Polymer erano solo alcuni dei nomi stampigliati sui bidoni d'acciaio caricati sulla Lynx.

La nave, noleggiata dalla società svizzera Inter Contract S.R. di tale Ambrosini [4], fece rotta verso il Corno D'Africa dove sarebbe dovuto avvenire lo smaltimento delle sostanze in fantomatici impianti situati in Gibuti, a nord della Somalia. «Noi consegnammo i rifiuti alla dogana del porto, li prendeva in carico Ambrosini, che effettuava tutte le operazioni doganali e d'imbarco», ha dichiarato l'amministratore della Jelly Wax, Renato Pent, ascoltato nel 2010 dalla Commissione Rifiuti [5]. Il costo per portare a termine l'operazione concordato con la Jelly fu di circa 500 milioni di lire, ma un imprevisto scombinò i piani. L'eco delle proteste ambientaliste che avevano preceduto la partenza del mercantile maltese dalla Toscana arrivò infatti all'orecchio della Marina Militare francese, che controllava ancora le acque della sua ex-colonia.
I documenti della Inter Contract che assicuravano il trattamento dei rifiuti in Gibuti non riuscirono ad incantare Parigi, ed il cargo venne bloccato prima ancora di iniziare le operazioni di scarico dei fusti. Fu l'inizio di un'odissea. C'era una nave piena zeppa di materiale chimico ferma in un porto africano, che fare?

Sempre secondo Pent [6], «l'Ambrosini aveva offerto all'armatore 200.000 dollari per buttare i rifiuti nel mare e liberare la nave. L'armatore ce lo riferì e noi lo diffidammo dal farlo, assicurandogli che ce ne saremmo occupati noi, raccomandandogli di non gettare i rifiuti in mare, perché avremmo pagato noi il nolo e uno smaltimento». Così la Lynx, nel tentativo di trovare un luogo in cui liberarsi dei veleni, ripartì con destinazione Venezuela. Anche questa volta però la fama di nave tossica riuscì a precederla. Quando la sua scia graffiò l'orizzonte di Puerto Cabello, i pescatori del luogo riferirono di decine di pesci morti a causa del micidiale mix di inquinanti portati da quel mercantile venuto da lontano. Subito i portuali iniziarono per protesta uno durissimo sciopero e anche la stampa venezuelana denunciò lo stoccaggio nei magazzini dello scalo dei rifiuti italiani: «El Venezuela no es el basurero del mundo».
Quel che accadde dopo non è del tutto chiaro. Sembra che un ragazzo (c'è chi dice una bambina), riuscì ad avvicinarsi troppo ai fusti scaricati dalla Lynx e si sentì male [7], forse addirittura morì [8]. Un avvenimento che costrinse le autorità venezuelane, incalzate dall'opinione pubblica, ad intimare alla Jelly Wax il rimpatrio dei pestilenziali barili, cosa che avvenne il 21 ottobre 1987 con un'altra nave, la cipriota Makiri. «Sulla polizza di carico», riferì un articolo di Repubblica del 1988 [9], «risulta che a spedire è la società Mercantil Lemporte di Caracas e che il destinatario del carico è la Jelly Wax».

Diversa è la versione fornita dell'amministratore della società milanese: «Si scrisse un documento segreto in base al quale il governo venezuelano si impegnava a pagare lo smaltimento di questi rifiuti, ma avrebbe dichiarato alla popolazione di aver costretto la società italiana a riprenderseli» [10].

I rifiuti tornarono quindi brevemente in Europa. La Makiri sostò a Cagliari prima di riprendere il viaggio verso il Medio Oriente dove si era presentata la possibilità di scaricare i rifiuti Siria. A Tartous l'annoso problema sembrò potersi risolvere con tanto di emissione dei certificati di smaltimento. Ma non fu così, i fusti vennero semplicemente trasferiti dal comandante della Makiri nella stiva di una terza nave: la Zanoobia, una Ro-Ro di novemila tonnellate di proprietà della compagnia di navigazione siriana Tabalo Shipping [11].

I misteri della Zanoobia - «Ci sono da portare dei prodotti chimici in Italia», dissero ad Ahmed Tabalo, comandante di quel cargo malandato e fratello dell'armatore. Almeno in apparenza si trattava di un viaggio come un altro, con pagamento alla consegna. Ma quel lavoro si rivelò un inganno che costrinse i 18 membri dell'equipaggio della Zanoobia a rimanere per mesi in ostaggio di quei veleni che nessuno voleva.

«Ricevetti un telex da un certo armatore della nave Zanoobia», ha ricordato Pent, «mi informava di aver caricato i nostri rifiuti in Siria, che era in corso il loro trasporto in Italia e avremmo dovuto pagare il nolo della nave […]. Dopo qualche giorno, l'armatore e il suo avvocato di Genova sono venuti da noi e ci hanno comunicato di aver caricato i nostri rifiuti, che avremmo dovuto pagare perché li buttassero in mare o li avrebbero riportati in Italia, sollevando uno scandalo che ci avrebbe rovinati».

Dopo i tentativi di sbarcare i rifiuti prima a Salonicco e poi a Limassol, il mercantile venne investito da una violenta burrasca che provocò la rottura di due fusti. Esalazioni terribili invasero i locali della Zanoobia al punto che l'equipaggio accusò i primi sintomi di intossicazione. Tuttavia il disperato vagare della carretta siriana non si arrestò prima del 4 maggio 1988 con l'arrivo della nave a Marina di Carrara. A questo proposito ecco la versione del presidente della Jelly: «La Capitaneria di porto di Marina di Carrara ha commesso un errore madornale perché non avrebbe dovuto far entrare i rifiuti in Italia, perché la legge non lo permetteva». E ancora: «la sentenza ha riconosciuto l’estorsione, per cui le vittime eravamo noi e lo Stato italiano che aveva dovuto subire tutto questo».

Comunque sia, una volta a Marina di Carrara, la prolungata permanenza a bordo di una bomba chimica galleggiante cominciò a farsi insopportabile e alcuni marinai finirono in ospedale mentre a tutti gli altri, fatti salvi gli ufficiali, venne impedito di scendere a terra. In compenso la nave-lager, ormeggiata a due miglia da porto toscano, divenne meta di curiosi e giornalisti, in un incessante andirivieni di barche a noleggio. Vennero intervistati il comandante Tabalo e il marinaio Manun Kalifi, di appena 16 anni. Infine le telecamere della RAI [12] mostrarono per la prima volta al pubblico l'impressionante catasta d'acciaio multicolore. Bidoni blu, azzurri, gialli, rossi e verdi: l'arcobaleno dannato della Zanoobia.

«I fusti cilindrici sono accatastati alla meno peggio, in pessime condizioni, arrugginiti, ammaccati», raccontò La Stampa del 15 maggio, «dovrebbero essere a tenuta stagna: molti sono incrinati, dai fori colano liquidi maleodoranti e spumeggianti di vario colore (…). L'odore acre del carico diventa insopportabile man mano che ci si inoltra in questa sorta di moderno girone dantesco» [13].

Ci vollero settimane per capire cosa fare dei 10.500 contenitori e solo nel giugno del 1988, quasi un anno e mezzo dopo la loro partenza, vennero finalmente sbarcati nel porto di Genova. Una perizia effettuata del tribunale del capoluogo ligure permise di risalire ai nomi di 140 aziende. La proprietà dei barili passò quindi allo Stato italiano e con essa anche il poco invidiabile onere di smaltirli, un'operazione costata 16 miliardi di lire.

Che fine hanno fatto dunque i rifiuti della Zanoobia? «I rifiuti (...) sono stati smaltiti dalla Castalia, società del “magna-magna” e vai...», è stata la risposta di Pent alla domanda posta del presidente della commissione rifiuti Pecorella, «come sono stati smaltiti non mi è dato di sapere» [14].

Ancora oggi insomma persistono alcuni lati oscuri sul destino di quei veleni. Hanno subito una regolare lavorazione presso vari siti o sono spariti, «perduti nei meandri della burocrazia di carta» come ha scritto Andrea Palladino sul Manifesto [15] ? C'è infine un'ipotesi investigativa non confermata secondo cui il carico della Zanoobia sarebbe arrivato in qualche modo nella discarica di Borgo Montello, vicino Latina [16]. Di certo, almeno 2233 fusti tossici, pari a circa 500 tonnellate, vennero affidati ad un'azienda di smaltimento di Orbassano, in provincia di Torino, per essere smaltiti [17] «a norma di legge». Già, ma cosa prevedeva allora la legge?

 Massimiliano Ferraro - Torino

NOTE:
[1]
Dati Greenpeace
[2];[4]; [5]; [6]; [10];[14] Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, audizione amministratore della JellyWax 17/02/2010
[3] “Risulta che la Jelly Wax ha ricevuto, tra la fine del 1986 e l'inizio del 1987, rifiuti speciali o tossico nocivi da diverse aziende italiane”. Testo della sentenza del processo di primo grado concluso nel 2006 dalla prima sezione civile del tribunale Milano
[7] Il compagno segreto della Zanoobia - Pietro Valentino, La Repubblica 07/05/1988
[8]; [15] Da Gibuti al Venezuela, i viaggi dei veleni – Andrea Palladino, Il Manifesto 29/09/2009
[9]; [11] Traffico di veleni, un caso politico – Antonio Cianciullo, La Repubblica 11/06/1988
[12] Servizi della RAI sul caso Zanoobia
[13] I 18 dannati della nave avvelenata – Francesco Fornari, La Stampa, 15/05/1988
[16] Il mistero della discarica di Borgo Montello: “cosa c'è sotto?” – Alessandro Fulloni, Il Corriere della Sera 05/06/2010
[17] Zanoobia, ultimo bidone – Gianni Bisio, La Stampa 23/02/1989

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