Il dominio turco sul Tigri e l'Eufrate, asseta l'Iraq
Con 22 dighe la Turchia, già ricca di risorse nel suo sottosuolo, si pone l'obiettivo di diventare primo venditore di acqua ai Paesi limitrofi e bisognosi come Arabia Saudita, Israele e Kuwait. Laghi prosciugati, popolazioni impoverite
Un fiume, una storia millenaria, una guerra del futuro. Ciò che la Turchia sta facendo all'Iraq potrebbe essere il banco di prova per quello che molti analisti vanno dicendo da tempo: a breve il mondo si troverà a combattere per l'acqua e non più per il petrolio.
Da anni si sente parlare del progetto GAP (Great Anatolian Project), ossia la costruzione di 22 dighe in territorio turco che dovranno regolare il flusso delle acque dei fiumi Tigri (8 dighe) ed Eufrate (14) che, oltre ad essere i due fiumi più famosi della storia dell'umanità, sono anche una risorsa vitale per il confinante e disastrato Iraq. Più che di regolamentazione si dovrebbe parlare di vero e proprio saccheggio, visti gli effetti disastrosi per il territorio iracheno della costruzione già completata di molte di queste dighe.
In soli due anni, dal 2007 al 2009 il lago Baghdadiyah è stato prosciugato e stessa sorte è toccata, in 7 mesi, allo Um-Al Tayar. Le Marshes, paludi già svuotate due volte da Saddam Hussein per assetare la popolazione ribelle, e il loro patrimonio naturale sono a rischio desertificazione, come testimonia la morte del lago Chibaysh-Midynah e di tutta la sua fauna. Non possiamo dimenticare la città di Hasankyef, con i suoi oltre 10.000 anni di storia e il patrimonio artistico, che rischia di essere svuotata di abitanti e quindi abbandonata.
Sono alcuni esempi che danno un quadro limitato di cosa succederebbe se il governo di Ankara completerà la costruzione della Ilisu Baraji sul Tigri a Kartalkaya, nell'Anatolia del sud. Questa diga supererà per portata la Ataturk, costruita dai turchi sull'Eufrate, la sesta più grande al mondo e "ruberà" circa il 50% delle acque del grande fiume in territorio iracheno. La fine dei lavori è prevista per il 2015, poi serviranno altri 7-8 anni per farla entrare a pieno regime. In questo lasso di tempo la società civile irachena sta cercando di impedire lo scempio del proprio territorio.
L'Iraqi civil society solidarity initiative (ICAAI), da circa sei mesi, ha lanciato la campagna Save the Tigris and the Marshes, volta a sensibilizzare sia l'opinione pubblica irachena ed internazionale che il governo iracheno sugli effetti del progetto GAP. A livello internazionale gli attivisti si stanno muovendo per far riconoscere le paludi Marshes patrimonio nazionale dell'Unesco e stanno facendo pressione sulla diplomazia dell'Onu perché, nonostante le decine di accordi siglati fra i due Paesi nell'arco degli ultimi 150 anni, le 22 nuove dighe non hanno una legittimazione internazionale, dato che la progettazione è stata decisa unilateralmente dalla Turchia. Il governo iracheno di Nouri Al-Maliki per adesso fa orecchie da mercante, anche perché è alle prese con una difficile stabilizzazione del Paese. Ma il rischio è grosso. Il dimezzamento delle acque del Tigri nell'Iraq del sud comporterebbe la perdita di circa il 40% dei terreni coltivabili nella zona, unica fonte di sostentamento delle famiglie contadine sciite, impoverite prima dalla dittatura del sunnita Saddam Hussein e poi dalla mancanza di alternative all'agricoltura e alla pastorizia.
L'arma della politica idrica, d'altronde, è stata usata dalla Turchia più volte. Il progetto GAP ha anche lo scopo di impoverire le zone del confine sud-est del Paese, quelle dove vivono da decenni i ribelli curdi. Centinaia di famiglie sono già state fatte trasferire nei centri urbani lontani dal fronte caldo della rivolta, costrette ad abbandonare i loro animali e i terreni espropriati per far posto alle costruzioni. E il progetto di creare parchi acquatici e bacini idroelettrici su Tigri ed Eufrate molto difficilmente vedrà la partecipazione della società curda. Non solo, ergendosi a potenza idrica dell'area la Turchia, già ricca di risorse nel suo sottosuolo, si pone l'obiettivo di diventare primo venditore di acqua ai Paesi limitrofi e bisognosi come Arabia Saudita, Israele e Kuwait. Un ruolo che avrebbe fatto tanto comodo all'Iraq, sempre più dipendente da petrolio e gas. Ma l'acqua, si sa, oltre ad essere una risorsa e un diritto sta diventando sempre più un business geopolitico.
Andrea Milluzzi - Baghdad
Link: Christian Minorities in the Middle East - Linda Dorigo Photographer
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