Data: 14/12/2012
 

La guerra diplomatica dei gasdotti

Alleanze e inimicizie nella politica estera dell’energia: dalle difficoltà del governo Monti in Libia ai giochi della Casa Bianca in Afghanistan, dalle acrobazie di Teheran al ruolo del Pakistan. L'affare Eni-Gazprom e il rivale Nabucco

 

La guerra diplomatica dei gasdotti

Dove c’è un gasdotto o un pozzo di petrolio, c’è una guerra. L’attacco alla Libia, orchestrato da alcune cancellerie occidentali con la collaborazione degli oppositori di Gheddafi, è un esempio, tipico, di guerra energetica. Ed è in quest’ottica che va interpretato l’interventismo di Londra e Parigi, con l’Italia accodatasi per difendere interessi consolidati, subendo, così il Rapporto Ispi e Fondazione Farefuturo  "La politica estera dell’energia" presentato il 26 novembre 2012 alla Farnesina, l’iniziativa «diplomatica e militare francese verso un partner storico dell’Italia».
Né va taciuta l’irrequietezza di Washington, preoccupata per una espansione cinese in Africa.


Nel settembre 2011 Eni, i cui contratti energetici nel settore del gas coprono più del 13% del suo fatturato,
è intanto tornata in Libia, dov’è presente dal 1959, riavviando attraverso la Mellitah Oil & Gas B.V., joint venture fra Eni e la National Oil Corporation, la riapertura di quindici pozzi del giacimento di Abu Attiffel, circa 300 km a sud di Bengasi, collegato via oleodotto al terminale di Zuetina, quindi la produzione di gas dalla piattaforma Sabratha, 110 km chilometri al largo di Tripoli, di fronte Sabratha, l’antica città costiera della Tripolitania.


La piattaforma Sabratha produce gas e condensati
dal campo di Bahr Essalam, uno dei più grandi giacimenti della Libia, che quindi convoglia attraverso condotte sottomarine all’impianto di trattamento di Mellitah, sulla costa libica. Da Mellitah parte del gas proveniente da Bahr Essalam e da Wafa, nel deserto libico ai confini con l’Algeria, viene compresso ed esportato in Italia, lungo un percorso di 520 km e una rotta dove il gasdotto raggiunge una profondità massima di 1127 m, attraverso il GreenStream, pipeline con passaggio a ovest di Malta e a est di Lampedusa e approdo al terminale di ricevimento di Gela. Il tutto, da Bahr Essalam passando per Wafa e Mellitah, nell’ambito del Western Lybian Gas Project.


Prima della crisi libica
la notizia era anche che condotte sottomarine avrebbero inviato a Sabratha, destinati a Mellitah, flaring gas e condensati associati provenienti dal giacimento a olio Bouri, circa 130 km a nord di Tripoli. La produzione, fermatasi a causa dei bombardamenti nel Mediterraneo, è ripresa il 22 novembre 2011, mentre il 3 dicembre 2012 Eni ha annunciato, con la perforazione del pozzo A1-108/4 nel Bacino della Sirte, circa 300 km a sud di Bengasi, il riavvio delle attività esplorative sulla terraferma.


Il 21 gennaio 2012 Mario Monti, a capo di un governo tecnico,
ha raggiunto la Libia per incontrare, accompagnato dai ministri Corrado Passera, Giulio Terzi di Sant’Agata e Giampaolo Di Paola, il premier libico Abdurrahim al Keib e rilanciare, così, le relazioni italo-libiche. Davvero l’incontro del primo ministro italiano in Libia, con la firma della Dichiarazione di Tripoli, ha segnato un punto fermo nel campo della sicurezza energetica dell’Italia?
Chi pensava che il cambio di governo a Roma potesse favorire definitivamente gli interessi economici italiani, ha dovuto rivedere le proprie posizioni, come dire che è servito a ben poco, così come a ben poco è servito il do ut des con l’attacco alla Libia in funzione anti Gheddafi e di cui l’Italia è stata parte attiva. E' interessante, a tal proposito, quanto riferisce il Rapporto Ispi-Farefuturo: «Il futuro delle relazioni tra i due paesi è ancora però lontano dall’essere consolidato: seppure il Trattato italo-libico, sospeso durante le operazioni belliche della Nato, è stato implicitamente confermato dalla Dichiarazione di Tripoli firmata da Monti e dal premier libico Abdurrahim al-Keib, il nuovo governo libico sembra restio a confermare e certamente ad aumentare gli investimenti in Italia fatti dalla Lybian Investment Authority, mentre la posizione di Eni nel paese è spesso a rischio di essere messa in discussione. La rivolta contro il regime di Gheddafi ha quindi portato incertezza e instabilità nei rapporti con uno dei più importanti partner della sicurezza energetica italiana».
Non è un caso che durante l’incontro alla Farnesina del 26 novembre Terzi di Sant’Agata si sia trovato costretto ad affermare che la «sicurezza energetica non è mai un bene acquisito», tanto da rendere necessaria una «diversificazione di fondi, fornitori e rotte», come la Trans Adriatic Pipeline, cara al ministro, per il trasporto del gas naturale dal Mar Caspio alle coste italiane via Grecia e Albania, e il gasdotto South Stream, caro all’Italia, non così a Bruxelles e alla Casa Bianca. Perché South Stream, così come Blue Stream per l’esportazione di gas in Turchia attraverso il Mar Nero, vuol dire alleanza fra Italia e Russia, fra Eni e Gazprom, vuol dire gas russo. Intanto, il 7 dicembre 2012, sul Mar Nero, origine del South Stream, Gazprom e South Stream Transport B.V. hanno festeggiato con il presidente russo Vladimir Putin il via alla costruzione del gasdotto. Sul Mar Nero c’era anche Paolo Scaroni, amministratore delegato Eni, che con Alexey Miller di Gazprom ha parlato della necessità di individuare tutte le soluzioni possibili per «fronteggiare lo stato attuale del gas europeo».


Bruxelles non ama il South Stream,
tanto da opporgli il Nabucco per l’importazione di gas dal Mar Caspio, dove tuttavia non c’è abbastanza gas. A Bruxelles, però, sanno bene, e non da oggi, che il Nabucco, sostenuto dalla Commissione Europea per vedere ridotta la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, potrà in fondo funzionare solo se riceverà gas a sufficienza da Iran e Turkmenistan. Tempo fa, nonostante i veti di Washington, la National Iranian Oil Company non ha infatti nascosto il suo interesse per il Nabucco. Una soluzione accarezzata anche dal premier turco Recep Tayyip Erdogan, che, oltre a caldeggiare l’ipotesi gas iraniano, s’era detto favorevole a una ipotesi russa. Ma a chi chiedere allora il gas per il Nabucco? Azerbaijan? Turkmenistan? Egitto? Uzbekistan? Kazakhistan? Iraq? Non disponiamo di un surplus di riserve di gas da destinare al gasdotto Nabucco sostenuto dagli Stati Uniti, così Baghad, smentendo tempo fa la notizia di gas iracheno all’Europa attraverso la Turchia. L’Iraq, del resto, non ha ancora dimenticato le due guerre di aggressione, a stelle e strisce, all’odor di petrolio.
Ancora oggi la stessa Hillary Clinton continua a sostenere che «energy is at the core of geopolitics because it is an issue of wealth and power, making it both a source for conflict or cooperation». Insomma, a sentir il segretario di Stato americano, fedele alla dottrina di politica estera statunitense sempre in bilico tra soft power e hard power, l’energia è oggetto di una competizione strategica internazionale per le risorse, che per gli Stati Uniti, detto per inciso, si traduce quasi sempre in attacchi a paesi sovrani con conseguente offensiva militare, e al tempo stesso strumento con cui compensare o punire alcuni Stati.


La diplomazia energetica degli Stati Uniti per esistere ha bisogno di guerre e conflitti
. Scrivevamo tempo fa del porto di Gwadar, nel Balucistan sud occidentale, costruito dai cinesi e dove sarebbe stato convogliato il gas proveniente dal giacimento di South Pars, nel Golfo Persico, e dell’accordo del 2009 fra Iran e Pakistan per la costruzione del gasdotto Iran-Pakistan con cui l’Iran avrebbe venduto al Pakistan il gas proveniente da South Pars, quindi di quello del 2008 fra Cina e Pakistan in base al quale la Cina avrebbe importato gran parte del gas iraniano qualora l’India fosse uscita dal gasdotto Iran-Pakistan-India. Scrivevamo che il Pakistan era per la Cina l’ideale corridoio di transito per l’importazione di gas e petrolio, a differenza dello Stretto di Malacca, da Pechino giudicato eccessivamente pericoloso, nonché particolarmente soggetto alla sfera di influenza di Washington, e che con il porto di Gwadar deposito cinese collegato all’Iran, il Pentagono, impegnato nella guerra in Afghanistan, avrebbe, soprattutto dopo la caduta del Passo del Khyber in mano talebana, perso la possibilità di una lunga via di comunicazione terrestre dal Balucistan all’Afghanistan sud occidentale. Scrivevamo che il gasdotto Iran-Pakistan con passaggio da Gwadar avrebbe rischiato di vanificare gli sforzi profusi dalla Casa Bianca nel progetto di costruzione di una pipeline per l’esportazione del gas turkmeno in India attraverso Afghanistan e Pakistan, e che il piano, estromettendo l’Iran, avrebbe, nell’ottica di Washington, dovuto privare Teheran di ingenti rendite. Scrivevamo che quella di un gasdotto transafghano non era storia di oggi, che era la pipeline per il trasporto del gas del Mar Caspio dal Turkmenistan al Pakistan attraverso l’Afghanistan che la Union Oil of California aveva tentato di costruire sotto l’amministrazione Clinton nella seconda metà degli anni Novanta, contando per i negoziati con la leadership talebana su Hamid Karzai e Zalmay Mamozy Khalilzad, l’afghano uomo forte di Washington, e che il progetto, in origine della argentina Bridas Corporation, sarebbe naufragato, né per questo accantonato come testimoniato dall’incontro del 29 maggio 2002 a Islamabad fra Hamid Karzai, Pevez Musharraf e Saparmurat Nyazov per la costruzione di una pipeline per il trasporto del gas del Mar Caspio attraverso il corridoio Herat-Kandahar, un tempo sotto il controllo talebano, con approdo a Gwadar. Scrivevamo che il porto di Gwadar, grazie alla sua posizione strategica con affaccio sul Mare Arabico, tanto da spingere il Pentagono a vantare su di esso «military basing rights», si candidava a diventare hub regionale per il traffico commerciale da e per il Medio Oriente, Golfo Persico, Iran, Sri Lanka, Bangladesh, Xinjang, nonché a luogo di stoccaggio delle riserve di petrolio e gas dei ricchi giacimenti offshore del Golfo Persico e a corridoio di transito delle risorse naturali dell’Asia Centrale, e come ancora nel 2005 rappresentasse per la Casa Bianca lo sbocco ideale di tali risorse via Afghanistan secondo una strategia rafforzatasi dopo gli attentati del 2001. In futuro pipelines attraverseranno sempre più i bacini marittimi, se non quando, provenienti dal largo o da terra, eleggeranno i porti a luoghi di approdo o di transito con implicazioni sul piano geopolitico e conseguente spostamento del baricentro dei grandi scenari energetici sul mare. Anche la guerra in Afghanistan, con la contesa del porto di Gwadar, è stata parte di questo mosaico.


Stefania Elena Carnemolla - Milano
 

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