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Censure d'oltremare per Buzzati, Bonacci, Barzini & co
I grandi inviati del Corriere della Sera a bordo degli incrociatori e dei sommergibili della Regia Marina e nel Nord Africa durante la guerra italo-turca. Quegli articoli "sacrificati" alla "segretezza"
Per vent’anni aveva sognato montagne, mentre ora sognava solo navi. Navi da guerra. Quando sognava, nella sua cabina affollata di taccuini e lapis spuntati, era il rombo degli aerei inglesi a svegliarlo. Ma anche quelli facevano parte dei suoi sogni di corrispondente di guerra, insieme alle battaglie, ai siluri, agli incrociatori, alle corazzate, ai convogli, ai portelli d’acciaio delle torri marine, agli esili dei sommergibilisti in fondo al mare. Quando i sogni svanivano, Dino scriveva, armato di taccuino, a bordo di una nave o di un sommergibile. Quando capitava, da una base navale. Nel 1940, ufficiale richiamato alle armi, s’era imbarcato sull’incrociatore Fiume perché raggiungesse, da corrispondente, il teatro delle operazioni navali nel Mediterraneo. Vi fu il Fiume, il Gorizia, il Trieste e i sommergibili, come il Bragadin.
A bordo delle unità della Regia Marina, lontano dalla quiete borghese di via Solferino, dal silenzio della grande stanza dal lungo tavolo rettangolare, quello con le lampade a curvatura e l’incavo per i calamai e le asticelle, dove per anni, fra dispacci, telegrammi, notizie, aveva scritto i suoi articoli, sempre a penna mai con quella macchina dai tasti da pigiare e il rullo da far scorrere su e giù, Dino Buzzati avrebbe redatto per il Corriere della Sera, suo giornale, una cinquantina di articoli. Non che non gli capitasse d’incappare nella censura. «Avrai forse visto i miei pezzi di marina, che vanno facendosi sempre più difficili perché il colore, gli articoli d’ambiente e simili sono banditi» scriverà il 31 dicembre del 1940 dall’incrociatore Trieste all’amico fraterno Arturo Brambilla, fino a quando la Regia Marina non gli ordinò un libro sulle manovre della flotta navale italiana. Il libro di Buzzati non vedrà mai la luce, rimangono solo le sue corrispondenze marinare con la descrizione della vita di bordo, delle battaglie, delle manovre, degli assalti, delle tante perdite e delle altrettante conquiste.
Nel 1889 Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, spedì a Cristiana, l’odierna Oslo, Ugo Ojetti. Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, era in partenza per il Polo Nord a bordo della Stella Polare. Che se ne scriva. Ma più che quella al duca, per Ojetti potè l’intervista a Fridtjof Nansen, il principe dei ghiacci. Quando nel 1928 il dirigibile Italia si schiantò sulla banchisa, Cesco Tomaselli era là. Tra le vittime della Tenda Rossa il comandante non c’era, Umberto Nobile era salvo, chiuso in una cabina del Città di Milano II con gli occhi luccicanti di febbre, il volto «smagrito, sfigurato», seduto su una poltrona «la gamba fratturata, la destra, appoggiata a una sedia».
«Bengasi, 20 ottobre. Alle sette e venti di stamane, il capitano di vascello Capomazza, capo dello stato maggiore dell’ammiraglio Aubry, discende a terra scortato da pochi marinai, visita il console inglese Jones, indi inalbera la bandiera italiana sulla Dogana e sul castello gridando Viva l’Italia! Viva il Re! Gli fanno eco i marinai. Il capitano Capomazza induce i capi arabi e il sindaco di Bengasi a recarsi a bordo della Vittorio Emanuele a conferire con l’ammiraglio Aubry. Salgo con loro». Era il 30 ottobre del 1911 quando sul Corriere della Sera venne pubblicato un articolo di Giulio Bonacci sui giorni di Bengasi (i marinai italiani erano sbarcati a Tripoli giorni prima issando il tricolore sul forte Sultania). Ma per Bonacci così come per tutti gli altri inviati del Corriere, Barzini, Lasagna, Fraccaroli, Civinini, Tioli, Rossini, Larco, Berri, Emanuel, l’oltremare non sarebbe stato terreno amico, mai come quella volta il Ministero dell’Informazione esercitò la censura. «I telegrammi da Tripoli a tutti i giornali» tuonò via Solferino «confermano che il Ministero insiste nel volere che i corrispondenti non seguano le operazioni di guerra, e che essi non sbarchino in Cirenaica. L’autorità militare aveva dato il suo consenso. Ma il Governo pretende che il pubblico sia informato di quanto avviene solo attraverso i gelidi, meschini comunicati ufficiali che compaiono quando esso vuole, e dei fatti non recano che un tenue riassunto. Nessun Governo, di nessun paese, si è mai permesso di commettere una simile sopraffazione a danno della stampa. In tutte le guerre è stato permesso ai giornalisti di seguire le operazioni militari salvaguardandosi colla censura dalle loro indiscrezioni od esagerazioni. Che c’entra la segretezza colla narrazione dei fatti compiuti?».
Stefania Elena Carnemolla - Milano
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