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In Sicilia c'era una volta il giorno dell'acqua e c'è ancora
Cominciava la mattina presto, con quello strano gorgoglìo, quell’eco dei tubi asciutti. Scopa, secchi, bidoni, vasche. Ogni contenitore andava riempito. Ogni goccia andava usata con parsimonia. Fino al prossimo regalo del fontaniere
I tetti della Sicilia hanno i colori delle vasche di raccolta dell’acqua. Grigie, di metallo, o azzurre, di plastica. Stanno sempre in alto. Per quella faccenda della forza di gravità. Perché l’acqua bisogna che scivoli facilmente prima che arrivi a bagnarci dal rubinetto. Per farcela arrivare si usano vari sistemi. Le braccia e la tecnologia. Una volta c’erano solo le braccia. Ho trascorso l’infanzia a trascinare bidoni d’acqua per portarla due piani più su. Mia madre caricava i bidoni da trenta litri. Uno per braccio. Io solo uno da dieci. Con entrambe le braccia. Avrei aumentato il peso e la proporzione con il passare degli anni. Era semplice: l’acqua arrivava alla vasca del pianterreno. Le donne di famiglia aspettavano e poi organizzavano il trasporto. Infine si concedevano un bel bagno. L’unico dopo venti giorni. La nostra vita era scandita dal tempo dell’acqua. Anzi c’era, e in alcune zone della Sicilia c’è ancora, il “giorno dell’acqua”. A gestire quella enorme ricchezza era il “fontaniere”. L’uomo più potente del paese. Era lui a decidere quale valvola aprire per prima. Quale quartiere dissetare e quale fare attendere ancora. Quell’uomo riceveva grandi doni in casa. Casse intere di ortaggi e frutta e altri prodotti della terra. Bottiglie di vino, pezze di formaggi. Se un uomo era così potente non aveva bisogno di fare la spesa.
Il “giorno dell’acqua” era quasi un giorno di festa. Cominciava la mattina presto, con quello strano gorgoglìo, quell’eco dei tubi asciutti. All’alba, perché la pressione dell’acqua era maggiore e non si svenava dall’uso delle nostre giornate. Mia madre organizzava gli attrezzi. Scopa, secchi, bidoni, vasche. Ogni contenitore andava riempito. Ogni goccia di liquido andava usata con parsimonia nei giorni a venire. Fino al prossimo giorno dell’acqua. Fino al prossimo regalo del fontaniere. Per prima cosa si lavava la strada non asfaltata. Le donne calmavano la polvere e pulivano il marciapiedi, l’ingresso delle case, scale e scalini. Nel frattempo “si davano la voce”, chiacchieravano e il suono di quelle chiacchiere si espandeva da un punto all’altro del quartiere. L’acqua si travasava di mano in mano e di stanza in stanza. Era il giorno della pulizia profonda. Si lavavano le finestre, i pavimenti, si faceva il bucato. Piatti e servizi igienici godevano del privilegio di una manutenzione più costante. La misura era importante. Una bacinella per il water. Una per bidet e lavandino. La vasca spesso non c’era. Una bacinella per insaponare i piatti e un’altra per sciacquarli.
La lavatrice all’epoca non c’era e quando arrivò comunque si usava solo nel giorno dell’acqua. Succhiava troppo liquido e non era compatibile con i nostri bisogni. Perciò il bucato si faceva a mano. Nella “pila”. Quell’affare di marmo o pietra dura scavata con le scanalature per strofinare i tessuti. Lenzuola, mutande e tovaglie si lavavano con l’acqua bollente. Cotta sul gas. Quello delle bombole. Anche quelle portate in spalla dalle donne. Mia madre ci infilava dentro le mani, nell’acqua bollente, e le tirava fuori rosse e ustionate. Poi sciacquava tutto nell’altra acqua. Quella ghiacciata. E le mani le diventavano di nuovo rosse e ustionate. Questa volta dal freddo.
Quando inventarono i guanti di plastica lei disse che non erano comodi. Le scivolava tutto di mano. Così mi insegnò a strofinare lenzuola e a strizzarli con la forza di dieci uomini. Io non so se avete mai strofinato qualcosa a mano. Si formano dei calli che poi esplodono. Prima che il bucato finisca le mani sembrano sfinite, strappate, senza pelle. A me succedeva spesso. Mia madre diceva che avevo la pelle delicata. Così io lavavo i panni “piccoli” e lei teneva per se’ con orgoglio quelli “grandi”. Per lavare a mano la schiena deve stare piegata sulla “pila”. Le gambe devono fare forza e le braccia spremono i muscoli fino a non lasciarne più neppure un millimetro. Mia madre diceva che avere la “pila” in casa era già un lusso. Perché a mia nonna toccava andare a fare il bucato alla “brivatura” (l’abbeveratoio per le bestie - i muli, gli asini - con una vasca per i bucati delle donne).
Nel giorno dell’acqua, d’estate, si lavava anche la lana dei materassi e dei guanciali. Quello era un lavoro intenso. Con dita agili bisognava sciogliere i nodi, uno per uno, della lana. Bisognava stenderla bene, aprirla, lavarla e poi stirarla al sole. Quando era asciutta si rimetteva dentro i tessuti a fare nuovamente da materassi e cuscini. Anche rifare il letto la mattina era un bell’avvenimento. Non bastava rincalzare lenzuola e coperte. Bisognava ridare forma al materasso. Girarlo, rigirarlo e poi picchiarlo ripetutamente.
Con l’acqua il “tempo dei pomodori” diventava uno spettacolo rosso. L’intera terrazza diventava piena di bucce e semi e polpa succulenta. Il mio compito era la passata. Al setaccio, con giro rapido di manovella. A piedi nudi, con le api a ronzare tutt’attorno e la “suca” (tubo di gomma) attaccata al rubinetto per bagnarci vestiti e inumidire i capelli che il sole rendeva ancora più chiari. Quella passata diventava sugo di pomodoro in bottiglia. Da custodire in punti freschi della casa. Con il timore di esplosioni dovute alla pressione e al germogliare di muffe e batteri e bolle d’aria claustrofobiche. Poi c’erano i pomodori secchi e la passata da stendere al sole. Diventavano “chiappi ri pummaroru” e “astrattu” (pomodori secchi e l’estratto astringente dei sughi). Sul mio terrazzo ho visto tanti colori e odori stesi ad asciugare o a salarsi. Mandorle, olive, mosto…
Nel giorno dell’acqua si faceva lo shampoo senza sconti. Si rideva e si andava in giro bagnate e felici. Perché era proprio un giorno di festa. Quando il fontaniere rigirava la manopola e l’acqua ritornava a stagnare nei tubi arrugginiti e semiasciutti la nostra vita tornava come prima. Quieta. Parsimoniosa. Austera. Ci passava la voglia di osare e ridere e ballare. Non bisognava sporcarsi o sporcare. Bisognava fare attenzione. Diventava un delitto persino farsi la pipi’ addosso. L’acqua non c’era e io facevo la pipi’ a letto. Non amavo sentirmi asciutta. Poi smisi. L’acqua, in Sicilia, continua ad arrivare ogni venti, quindici, sette giorni.
A Palermo usano le “cisterne” per fornire liquido ai condomini. C’è l’autoclave per tirarla su per i tubi fino al piano alto. Nei paesi c’è il “motorino”, un attrezzo che succhia dai tubi o dalla vasca al pianterreno per spedire l’acqua in alto nelle vasche sul tetto. L’acqua arriva nelle case sempre attraverso il sistema di turnaggio deciso da un “fontaniere” un po’ più moderno. Il sistema di clientele resiste ancora. Intere zone restano senza acqua. Chi ha il compito di distribuirla spesso ne disperde tanta per le campagne. La disperde o la vende ai privati che poi la rivendono alle persone assetate. La disperde o la fa smerciare ai proprietari terrieri che la rivendono ai piccoli proprietari per innaffiare i campi privi di pozzo.
Le dighe della Sicilia sono servite solo a far arrivare tanti soldi nelle tasche di imprese mafiose. Sanno di sangue e morti ammazzati. Ne ho viste alcune piene d’acqua buona per farci crescere i pesci o per lavarci gli attrezzi sporchi delle raffinerie di petrolio. Ci sono posti dove arriva l’acqua del mare (e quanto mare c’è) dissalata. Un grosso dissalatore sta a Gela e lo gestisce l’Enichem. Quell’acqua arriva a molti dell’intera zona del basso nisseno e non solo. Arriva comunque ogni quindici, ogni dieci, ogni sette giorni. Arriva rossastra, arrugginita, piena di rame e arsenico. E nei paesi, in Sicilia, continua ad esserci quel giorno: “il giorno dell’acqua”.
Enza Panebianco - Palermo
Link: L'Eretica
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