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Climate finance, prima che sia troppo tardi
Anche dopo Doha il Green Climate Fund resta a secco. Se i Paesi in via di sviluppo spingono per stanziamenti certi, altri, come gli Stati Uniti sopravvissuti a Sandy, temporeggiano in attesa di tempi migliori che non verranno
Le risorse da stanziare per combattere il cambiamento climatico sono enormi. Recenti studi parlano di oltre 36mila miliardi di dollari entro il 2050, più della metà del Prodotto interno lordo mondiale. E si tratta di soldi che andrebbero stanziati per sostenere politiche di "mitigazione", cioè taglio delle emissioni di gas climalteranti, e di adattamento, considerato che sempre di più ci sarà bisogno di interventi per rendere resilienti i territori.
Se si guarda ai danni che soltanto il tornado Sandy ha fatto negli Stati Uniti, e siamo a 60 miliardi di dollari come minimo, ci si rende conto di cosa vuol dire cambiamento climatico, eventi estremi e "loss and damage", come viene chiamato in gergo negoziale il problema dei disastri climatici. Un problema non certo dell'altro ieri, visto che fu affrontato tre anni fa alla COP15 di Copenhagen con la progettazione del cosiddetto Green Fund, il fondo verde che avrebbe dovuto mobilizzare tra il 2010 ed il 2012 oltre 30 miliardi di dollari come fast-track, e ben 100 miliardi di dollari all'anno al 2020. Oggi quel fondo è, ancora, mezzo vuoto. Se si pensa che per il fast-track furono stanziati soltanto 3 miliardi di dollari, che sono tutt'oggi usati per mantenerne in piedi la burocrazia, e che gli impegni presi qui a Doha in modo unilaterale da alcuni Paesi europei tra cui la Gran Bretagna sono una goccia nel mare.
La "climate finance" è il grande scontro della COP18 di Doha. Con alcuni Paesi che spingono per stanziamenti certi, come i Paesi in via di sviluppo (G77, Africa group) ed altri, come gli Stati Uniti, che temporeggiano in attesa di tempi migliori. Il rischio è che il prossimo futuro sia contraddistinto da impegni generici, tempi incerti ed uno stanziamento che non arriva.
Altro grande problema il taglio delle emissioni climalteranti. Il secondo periodo di Kyoto, approvato con la partecipazione di pochi Paesi tra cui l'UE (che insieme assommano a non più del 15% delle emissioni totali) è necessario ma non più sufficiente. E dall'altra parte ci si sta avvicinando a grandi falcate al grande accordo globale del 2020, che dovrebbe tenere a bordo tutti, in un sistema non più vincolante ma legato agli impegni volontari (sebbene verificati internazionalmente) da parte di ciascun Paese.
Questo garantirà una lotta efficace al cambiamento climatico? E' legittimo dubitarne. L'IPCC, il Panel di scienziati che ogni sette anni elabora e pubblica il report sulle ultime conoscenze scientifiche del fenomeno, chiama all'azione per fissare il picco massimo di emissioni al più tardi al 2015, per poi decrescere. Questo per evitare, con buone probabilità, un aumento della temperatura media di 2°C a livello globale. Anche questa una mediazione, se vogliamo, al ribasso.
La Groenlandia, quest'estate, ha visto sciogliersi buona parte del ghiaccio continentale, e così il pack artico. Eventi estremi sono sempre più frequenti, come le ultime alluvioni in Toscana e Liguria, il tornado di Taranto, le piogge torrenziali nelle Filippine e le perdite delle colture agricole negli Usa come nei Paesi africani e ci dimostrano come il sistema climatico basti assolutamente a se stesso e come alle tattiche bisognerebbe agire subito, con azioni concrete ed efficaci.
"We need to wake up" cantavano sulle note di Bella Ciao i movimenti sociali nella Hall del Convention Center di Doha l'ultimo giorno (ufficiale) della Conferenza. Prima che sia troppo tardi, si dovrebbe aggiungere, chiedendo alla politica internazionale ed anche italiana una vera assunzione di responsabilità, senza ulteriori infingimenti.
Alberto Zoratti (Fairwatch) - Doha
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