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Mare Nostrum, luci ed ombre sulle modalità operative
Ancora oggi, la posizione del governo italiano sulla gestione degli accordi bilaterali esistenti da anni con i paesi di transito, soprattutto con la Libia e con l’Egitto, rimane poco chiara. L'analisi di Fulvio Vassallo Paleologo
Sono anni che le autorità militari italiane salvano decine di migliaia di vite nel Mediterraneo, spingendosi fino al limite delle acque territoriali libiche e maltesi, operando dunque al di fuori della zona S.A.R. (ricerca e salvataggio) che le Convenzioni internazionali assegnano al nostro paese. Risulta dai rapporti di attività dell’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’Unione Europea Frontex quanto sia stato modesto il contributo fornito a queste operazioni di salvataggio dai pochi mezzi inviati da altri paesi europei per affiancare le unità italiane. Dopo le stragi che hanno caratterizzato questi ultimi mesi il governo italiano ha deciso di raddoppiare i mezzi impegnati nelle attività di pattugliamento e di salvataggio nelle acque del Canale di Sicilia e del Mar Libico, senza aspettare l’intervento dell’Unione Europea, anche per i noti problemi di budget di Frontex, che a settembre del 2013 aveva già esaurito le modeste risorse disponibili per l’intero 2013 (sembrerebbe non più di due milioni di euro).
Come comunicato ufficialmente dalle autorità militari italiane, “l’operazione militare e umanitaria nel Mar Mediterraneo meridionale denominata Mare Nostrum è iniziata lo scorso 18 ottobre e vede impiegato il personale e i mezzi navali ed aerei della Marina Militare, dell’Esercito, dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Guardia Costiera nonché personale del Ministero dell’Interno - Polizia di stato imbarcato sulle Unità della Marina Militare e di tutti i Corpi dello Stato che, a vario titolo, concorrono al controllo dei flussi migratori via mare. In particolare "sulle unità navali MM del dispositivo, inoltre, sono già imbarcati rappresentanti del Dipartimento Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere, che con le loro capacità rafforzano i controlli dei migranti già direttamente a bordo".
In un servizio giornalistico trasmesso da Rai News 24 nel pomeriggio di domenica 27 ottobre si vedevano chiaramente alcuni funzionari di polizia che, seduti ad un tavolo ubicato nell’hangar centrale della nave San Marco, procedevano, con l’assistenza di mediatori ed interpreti del C.I.E.S. alla identificazione dei naufraghi appena soccorsi, nel corso di una operazione che si è poi conclusa con lo sbarco di oltre 400 migranti nel porto di Augusta ( Siracusa). Secondo quanto comunicato da fonti ufficiali della Marina Militare, la stessa nave San Marco, con “funzione di Comando e Controllo dell’intero dispositivo” Mare Nostrum, avrebbe “la possibilità di ricevere a bordo rappresentanti di altri Dicasteri/Organismi nazionali/internazionali coinvolti nell’operazione”.
Le attività di prima identificazione compiute subito dopo il salvataggio avrebbero anche lo scopo di decongestionare i centri di accoglienza dove molti profughi rifiutano per giorni di farsi prelevare le impronte digitali, in quanto ritengono, a torto o a ragione, che in questo caso non potranno più trovare accoglienza in un paese europeo diverso dall’Italia, a causa dell’applicazione del Regolamento Dublino II. Una fase, quella delle identificazioni tramite il prelievo delle impronte digitali, che in questi ultimi mesi è stata caratterizzata da tensioni crescenti, al punto che alcuni migranti hanno riferito di avere subito violenze proprio nel corso di questa procedura. In base all’art. 18 del Regolamento Eurodac, gli stati, prima di procedere al prelievo delle impronte digitali devono a informare la persona sull’identità del responsabile del trattamento ed eventualmente del suo rappresentante; delle finalità per cui i dati saranno trattati nell’ambito dell’Eurodac; dei destinatari dei dati; dell’esistenza di un eventuale obbligo per rilevare le impronte digitali; dell’esistenza di un diritto di accesso ai dati che la riguardano e di un diritto di rettifica di tali dati.
Non sembra che si tratti di formalità che si possono adempiere a bordo di una nave in acque internazionali, quando forse sarebbe auspicabile il più rapido sbarco a terra, in un porto sicuro (place of safety), dunque non certo nel porto più vicino. Anche per non impiegare, con formalità burocratiche, tempo prezioso per altre operazioni di salvataggio. E ancora più grave sarebbe se a bordo delle unità impegnate nell’operazione Mare Nostrum si svolgessero veri e propri interrogatori, senza alcuna garanzia procedurale, magari alla caccia di qualche nave madre, mentre potrebbero esserci altri barconi in procinto di affondare. Negli stessi giorni nei quali venivano salvate oltre settecento persone, alle 14,30 del 23 ottobre, una parte del dispositivo militare Mare Nostrum, sessanta miglia a sud di Lampedusa, fermava un peschereccio egiziano, sospettato di essere una “nave madre”, ma poi risultato con le carte in regola ed estraneo alle attività di favoreggiamento di quella che si continua a definire come “immigrazione clandestina”. Sui naufraghi reduci da un salvataggio traumatico non si possono esercitare quelle attività di polizia che si dovrebbero compiere negli uffici di frontiera con le garanzie procedurali previste dalla legge, con l’intervento di mediatori culturali e non solo di interpreti, con una corretta informazione sulle leggi applicate, in modo da salvaguardare il diritto di chiedere asilo ed i diritti di difesa.
Occorre dunque chiarire le modalità delle procedure di identificazione che vengono effettuate a bordo della nave San Marco subito dopo le prime operazioni di salvataggi e sul ruolo che hanno o avranno i rappresentanti di altri “organismi nazionali o internazionali” che dovessero parteciparvi. Come occorre chiedersi che destinazione avranno i naufraghi soccorsi in mare dalle unità italiane, una volta sbarcati a terra, a fronte anche della crisi strutturale del sistema di accoglienza italiano. Si tratta in sostanza di verificare come vanno conciliate le esigenze di controllo delle frontiere con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone. Si afferma che Lampedusa è “frontiera europea”, ma poi si confinano tutte le persone che sono state salvate nel Mediterraneo centrale in Sicilia, ed in minima parte in Calabria ed in Puglia, senza neppure chiedere una sospensione temporanea del Regolamento Dublino ed un loro trasferimento legale in altri paesi europei. L’attenzione sembra più mirata al contenimento che all’accoglienza, e sono allarmanti i frequenti richiami ad un maggiore impegno delle autorità dei paesi di transito.
Sul punto le conclusioni del Consiglio Europeo del 25 ottobre scorso non fanno chiarezza, ma rinviano ad una successiva seduta dello stesso Consiglio, che si dovrebbe svolgere a dicembre, demandando ad una “task force” da istituire in stretto collegamento con la Commissione Europea, la individuazione di misure operative, da attuare quindi non prima del nuovo anno, che dovrebbero fissare non solo le modalità di identificazione, in base alle regole previste da Eurosur, in vigore dal 2 dicembre prossimo, ma anche i rapporti di cooperazione tra i mezzi militari italiani, le unità inviate dagli stati dell’Unione Europea e le autorità di polizia dei paesi di transito, con i quali peraltro esistono già rapporti di collaborazione, stabiliti dagli accordi bilaterali preesistenti.
Il Parlamento Europeo, nella mozione approvata il 23 ottobre 2013, ha accolto ( al punto 5) “con favore l’intenzione della Commissione di istituire una task force sulla questione dei flussi migratori nel Mediterraneo; ritiene che detta task force debba includere sia una componente politica sia una componente operativa; insiste, a tale proposito, affinché il Parlamento partecipi alla task force a livello politico o tecnico; ribadisce inoltre che la sua istituzione dovrebbe essere considerata soltanto un primo passo verso un approccio più ambizioso”.
Lo stesso Parlamento (al punto 10) invita i co-legislatori (Commissione e Consiglio) “a concordare rapidamente nuove disposizioni vincolanti in materia di intercettazione per quanto riguarda le operazioni in mare svolte sotto il coordinamento di Frontex, in modo da conseguire misure di soccorso efficaci e coordinate a livello di Unione e garantire che le operazioni siano condotte nel pieno rispetto delle pertinenti leggi e norme internazionali in materia di diritti umani e rifugiati, nonché degli obblighi derivanti dal diritto del mare”.
E ancora (al punto 17) il Parlamento sollecita l’Unione, Frontex e gli Stati membri “ad assicurare che l’assistenza ai migranti in difficoltà e il soccorso in mare figurino fra le priorità fondamentali in sede di attuazione del regolamento Eurosur appena adottato”. Malgrado le sollecitazioni del Parlamento Europeo non sembra che la Commissione ed il Consiglio abbiano raccolto con tempestività gli appelli loro rivolti, e questa impasse rischia di diventare ancora più grave, come si è verificato già in passato, a fronte della prossima scadenza dello stesso Parlamento. Appare grave, soprattutto che il Consiglio abbia istituito una Task Force che dovrebbe riferire soltanto alla Commissione, entro dicembre, in modo da escludere il Parlamento Europeo dalla ridefinizione delle missioni Frontex e delle loro modalità operative.
In precedenza, con sentenza Parlamento c. Consiglio e Commissione, causa C-355/10, del 5 settembre 2012, la Corte di giustizia aveva annullato la decisione del Consiglio e della Commissione 2010/252 relativa alle nuove modalità operative di Frontex, considerando che l’atto avrebbe dovuto essere adottato con procedura legislativa e dunque con il voto del Parlamento. La sentenza della Corte di giustizia ha mantenuto gli effetti della decisione 2010/252 fino all’entrata in vigore di una nuova normativa che non è stata ancora adottata, mentre il budget di Frontex nell’ultimo anno si è sensibilmente ridotto. Come si è detto, a fine agosto le risorse (appena due milioni di euro) destinate alle operazioni nel Mediterraneo centrale erano già esaurite, e si sono dovute sospendere altre operazioni per assegnare altri due milioni di euro alle attività di Frontex. Cifre insignificanti, come del resto i mezzi impegnati, rispetto allo sforzo assunto dall’Italia in questi anni in tanti casi di salvataggio, solo nel 2013 già oltre 16.000 persone. Un solo mese della missione “Mare Nostrum” costerà oltre dieci milioni di euro più del doppio di quanto l’Unione Europea ha deciso di investire su Frontex nel Mediterraneo centrale per tutto il corrente anno.
Rimangono dunque poco chiari, dopo la decisione interlocutoria della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ed il rinvio ad una task force che entro dicembre dovrà riferire soltanto alla Commissione Europea, i rapporti tra le missioni militari e di polizia di Frontex, e le attività di sorveglianza e salvataggio coordinate dalle autorità nazionali.
Per quanto riguarda l’Italia, le missioni Frontex hanno sempre operato nell’ambito di un coordinamento affidato alle autorità italiane, ma in altre occasioni, ad esempio nel Mediterraneo orientale, Frontex ha consentito l’attivazione di un canale diplomatico e militare parallelo a quello dei singoli stati, finalizzato al contrasto più che al salvataggio in mare. In passato, si deve ricordare, la delega assegnata a Frontex per la gestione ed il coordinamento dei controlli alla frontiera tra Grecia e Turchia si era risolta in operazioni di respingimento e di rendition del tutto opache ed arbitrarie, che avevano tra l’altro accresciuto il numero delle vittime.
Non è ancora chiara la competenza dei diversi stati che interverranno nelle future missioni operative Frontex, quando queste si collegheranno a (o sostituiranno?) Mare Nostrum, sulla destinazione dei naufraghi che potrebbero essere salvati, in quanto i diversi paesi che, negli anni, hanno messo alcune unità militari a disposizione dell’agenzia Frontex, hanno spesso rifiutato poi di accogliere i profughi raccolti in mare, ritenendo che questa competenza spettasse al paese nelle cui acque o zone SAR (ricerca e salvataggio) si effettuavano le operazioni di intercettamento e salvataggio. Di certo la posizione del Parlamento Europeo, che auspicava una maggiore solidarietà e condivisione degli oneri da parte dei diversi paesi europei nella “presa in carico” dei richiedenti asilo, come sono oggi la quasi totalità dei naufraghi, anche al fine di salvaguardare le esigenze di ricongiungimento familiare, non ha trovato riscontro nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 25 ottobre scorso, che ha rinviato tutte le questioni concernenti il diritto di asilo al giugno del 2014, quindi dopo lo svolgimento delle elezioni europee. E intanto quante altre persone dovranno morire in mare? E quali garanzie saranno accordate ai sopravvissuti? Dovranno restare per settimane confinati in strutture di accoglienza indegne, come sta succedendo persino ai superstiti dell’ultima strage di Lampedusa? E quanti saranno ancora costretti a fuggire nella clandestinità, come avviene dai centri di prima accoglienza siciliani?
Per tutte queste ragioni occorre fare chiarezza sul trattamento riservato ai naufraghi, che in gran parte sono anche potenziali richiedenti asilo, nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum, e sulle modalità di coinvolgimento (futuro) di unità Frontex nel Mediterraneo centrale, specie per quanto riguarda i rapporti con le autorità militari e politiche ( ammesso che siano sempre identificabili con certezza) dei paesi di transito, in particolare Egitto, Libia e Tunisia.
Come ha osservato Amnesty International Italia le missioni umanitarie in mare presentano ancora troppi punti oscuri. Occorre conoscere al più presto come le attività di soccorso saranno inquadrate nell’ambito dei controlli delle frontiere, ovvero quali saranno i protocolli operativi da definire ‘di concerto con i ministeri competenti’, come ha dichiarato Alfano nella conferenza stampa di presentazione dell’operazione “Mare Nostrum”. A livello interno, e poi in ambito europeo, occorre stabilire con certezza il luogo in cui saranno condotte le persone soccorse in alto mare, e cosa ne sarà dei naufraghi una volta che avranno fatto ingresso nel territorio nazionale per esigenze di soccorso.
A luglio del 2013 Amnesty International Italia aveva scritto al presidente del Consiglio Letta, alla vigilia del suo incontro col primo ministro libico Zidan, sottolineando ancora una volta l’inopportunità di ogni cooperazione in materia di controllo dell’immigrazione con un paese, la Libia, che viola i diritti umani di migranti, richiedenti asilo e rifugiati, sottoponendoli a detenzione sistematica, maltrattamenti e torture. Ancora oggi, la posizione del governo italiano sulla gestione degli accordi bilaterali esistenti da anni con i paesi di transito, soprattutto con la Libia e con l’Egitto, rimane poco chiara. Le autorità di polizia continuano ad eseguire respingimenti collettivi dagli aeroporti di Catania e di altre città verso l’Egitto, probabilmente con il supporto finanziario dell’Unione Europea, mentre non si sa nulla dei rapporti esistenti tra le attività di controllo effettuate dalle motovedette libiche e gli interventi delle unità della marina italiana operanti al limite della zona contigua alle acque territoriali libiche (24 miglia dalla costa). Sono queste opacità, che rischiano di avere gravi ricadute sul destino delle persone, che richiedono un chiarimento, da parte delle autorità italiane che hanno promosso la missione di sorveglianza e salvataggio “Mare Nostrum”, sul coinvolgimento di rappresentanti di altri “organismi nazionali o internazionali” a bordo delle navi e sulle attività di polizia, come interrogatori ed identificazioni, che vengono effettuati subito dopo gli interventi di soccorso, prima dello sbarco a terra.
Fulvio Vassallo Paleologo - Palermo
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